LA STORIA MEDIEVALE E L’OSPIZIO DEL GRAN SAN BERNARDO
Se le rocce che compongono il valico del Gran San Bernardo potessero parlare non solo ci racconterebbero quasi per intero l’avventura geologica del nostro pianeta, ma anche la storia dell’umanità dall’Età del Bronzo ai giorni nostri. Punto di congiunzione fra i paesi del Mediterraneo e l’Europa del Nord, nel cuore delle Alpi, questo valico di ben 2.472 m d’altitudine è stato teatro per millenni del flusso ininterrotto di uomini e di culture.
Oggi che comode autostrade e modernissimi tunnel gli hanno tolto il traffico alpino, il Gran San Bernardo non ha cessato di essere oggetto di visite e pellegrinaggi da tutto il mondo, soprattutto nei mesi estivi e nessuno riesce a sottrarsi al fascino misterioso e antico che il luogo emana, neppure il turista più disincantato.
L’automobilista che percorre la nazionale Aosta-Gran San Bernardo ha veramente la sensazione di entrare nel cuore delle Alpi. Monti di smisurata grandezza lo sovrastano: il Gran Combin, il Golliaz, il Velan, con la sua costante minaccia di valanghe. Poi, dopo St. Rhemy, gli viene incontro un paesaggio brullo, lunare, apocalittico: pareti frastagliate e incise dagli agenti atmosferici, voragini e abissi senza fondo, gole e crepacci colossali, rupi che sembrano onde pietrificate. Sullo sfondo, la catena del Bianco corazzata di ghiaccio.
Non un albero, un arbusto, un filo d’erba. Dopo i tornanti, nel punto più culminante del passo, costruito per essere il più possibile in vista con la nebbia e la bufera, compare l’Ospizio col piccolo lago quasi sempre ghiacciato.
Ii il colle, battuto in continuazione da venti gelidi e violenti che nelle tempeste possono superare i 200 km, ha uno dei climi più rigidi del mondo. La temperatura media annua è sotto il punto di congelamento e nel corso dei mesi le cadute di neve raggiungono i trenta metri, con frequenti bufere anche d’estate. In un clima perennemente invernale qualsiasi vegetazione è bloccata. Abbondano solo i licheni e, nelle positure più riparate i ranuncoli di ghiaccio e i salici polari.
In questo ambiente quasi incompatibile con la vita, almeno come noi comunemente l’intendiamo, hanno operato per secoli, quali buoni samaritani al servizio dell’uomo, i celebri cani di San Bernardo, gli angelici giganti che i bambini di tutto il mondo conoscono per averne letto le gesta sui libri. Sebbene oggi il loro compito si sia molto ridimensionato, perché surrogato dall’elettronica, dai mezzi aerei e, in conclusione, dall’uomo, i “Giganti delle Alpi” rimangono i più classici e completi ausiliari canini per il soccorso d’alta montagna, oltre che simboli insuperabili di forza, resistenza, eroismo e fedeltà all’uomo.
Le origini
Il San Bernardo è il più grande dei mastini. Le ipotesi sulla sua origine sono molte e non tutte provate. La più accreditata e degna di fede, anche per il rigore scientifico che la caratterizza, è quella sostenuta dagli studiosi C. Keller, H. Kramer e A. Heim, la quale farebbe risalire il cane di San Bernardo al «molosso pesante» di lontana stirpe assiro-babilonese. Difatti prove inconfutabili sull’esistenza di cani a lui molto simili sono rinvenibili presso le civiltà sumero-accadiche e assiro-babilonesi della Mesopotamia, dove cani aitanti e nerboruti a muso corto venivano allevati con cura e utilizzati sia come cani da guardia che nella caccia ai grandi animali selvatici.
Il Keller, nelle sue magistrali ricerche sulle origini degli animali domestici (Abstammung der ältesten Haustere), osserva che nell’antica Assiria vennero scoperte ossa di cani (oggi esposte al British Museum di Londra) la cui età risale ad oltre 2.500 anni e i cui teschi ricordano molto da vicino quelli del moderno cane di San Bernardo.
Il primo «ritratto» del San Bernardo è conservato anch’esso al British Museum di Londra e recenti approfonditi esami con l’ausilio del Carbonio 14 lo fanno risalire al 650 a.C. circa. Si tratta del ben noto coccio di situla votiva in terracotta rinvenuto da sir Heury Rawlinson nei pressi di Babilonia (a Birs Nimrud) e che raffigura in bassorilievo un enorme molosso tenuto al guinzaglio da uno schiavo. L’animale è così grande da raggiungere con la testa la spalla del conduttore. La taglia, lo sviluppo muscolare e scheletrico ed il portamento esprimono potenza e vigore straordinari, tutte peculiarità che si sono trasmesse integralmente dopo molti secoli nel cane di San Bernardo moderno. Al British Museum, ritrovati presso il palazzo del re Assurbanipal (669-631 a.C.), si possono ammirare altri bassorilievi e diversi graffiti di origine assira raffiguranti grandi cani a caccia di leoni o di onagri. Si tratta senza dubbio di molossi di aspetto feroce, ma del tipo leggero. Solo la già citata terracotta offre la prima vera immagine del mastino pesante, antenato del nostro San Bernardo.
Gli Assiri, antico popolo del vicino Oriente, spesso ricordato nei libri del Vecchio Testamento della Bibbia, dominarono la parte settentrionale delle pianure della Mesopotamia dal 2.000 a.C. circa al 612 a.C. Le loro capitali furono Assur sul fiume Tigri e Ninive nei pressi della moderna Mossul. I Babilonesi, loro consanguinei, abitavano la parte meridionale della piana mesopotamica e la loro capitale era Babilonia sul fiume Eufrate. Entrambi questi popoli ereditarono dai Sumeri, un popolo ancora più antico, uno straordinario livello di civiltà. Gli Assiri praticarono tutti i generi di arte e di artigianato. Anche l’allevamento fu tra i loro principali interessi, incluso quello dei molossi per la caccia, di cui proprio Assurbanipal fu uno dei fautori. La sua caccia per eccellenza fu quella al leone. Vincere ed abbattere un leone era a quei tempi non solo un’impresa temeraria, ma una vera prodezza da mito. Era l’attributo del dominio. Le avventure cinegetiche di Assurbanipal coi suoi molossi sopravanzano e umiliano ogni altra spedizione venatoria che la storia antica ricordi. Come abbiamo visto, al gusto della caccia il gran re accoppiava l’amore per i suoi poderosi mastini, che faceva allevare con cura e di cui possedeva pittoresche bardature da combattimento. Questi cani venivano battezzati con nomi strani e inequivocabili, a giudicare dalle iscrizioni scalfite sulle statuette fittili, di cui Assurbanipal possedeva una pregevole collezione, che riproducono con molta naturalezza l’atteggiamento e l’ardore di quegli animali. Assai comuni erano nomi come «il produttore di danni», «il giudice estremo del nemico», «il morditore dei suoi nemici», «il massacratore dei suoi nemici», ecc.
Mentre in Egitto dominava l’agile levriero, il grintoso, aitante mastino, antitesi perfetta del primo, divenne cosí cane nazionale del bellicoso popolo assiro, che ebbe per lui una specie di culto: il culto della forza e dell’ardimento. Gli Assiri furono conquistati dalla sua gagliardia leonina, dalla sua animosità, dal coraggio satanico che ne fece una sorta di mostro favoloso, tale era il terrore che incuteva negli altri animali.
Il mastino assirobabilonese derivava, nella sua versione di mole più ridotta, dal “Mastino del Tibet leggero” (Schlanktyp 0 tipo bovaro), che è giunto fino ai giorni nostri anche se rimane un cane piuttosto raro (qualche soggetto s’incontra ogni tanto in esposizioni del Centro Europa; in Italia, grazie al Club del Molosso, si comincia a vedere qualche esemplare) e, nella versione gigante, dal “Mastino del Tibet pesante” (Rumpftyp), oggi totalmente estinto.
Il Mastino del Tibet: tra realtà e mitologia
Vale senz’altro la pena di soffermarci brevemente su questo cane misterioso come lo yeti, di cui tanti studiosi parlano ma del quale oggi si sono completamente perse le tracce.
Angelo Vecchio, nel suo libro il Cane del 1898 (2a ediz. 1912) lo definisce: «comunissimo nell’altipiano dell’Himalaya ove viene assai apprezzato come guardiano delle case e delle greggi e infatti i pastori,
specialmente quando calano al piano per vendere il loro gregge, affidano donne e dimore a questi giganteschi e fedeli animali». E prosegue: «il mastino del Tibet, mentre è affabile e buono coi propri padroni, à altrettanto terribile con gli stranieri e tutti i viaggiatori che passarono l’altipiano dell’Himalaya sono d’accordo nell’affermare la ferocia dimostrata da questo cane».
Un altro studioso, Paul Déchambre nel suo Le Chien (2a ediz. del 1946) lo descrive con una taglia variabile dagli 85 ai 90 cm, con punte fino a m 1,10 e un peso che può raggiungere i 100 kg. Si tratta indubbiamente di pesi e misure non pià documentabili e che potrebbero riferirsi anche a veri e propri cani di San Bernardo.
Infine Paul Màgnin, nel suo Nos Chiens del 1903, ne parla come di un cane di grandissima statura e alquanto selvaggio anche nell’aspetto, con una voce ranca e cupa che ricorda il ruggito del leone. Màgnin riferisce che il visconte Maurizio d’Orlàans, sul finire del secolo scorso, durante un viaggio d’esplorazione nell’Alta Siria e nelle zone montagnose dell’Arabia, ebbe modo di acquistare una coppia di mastini tibetani. Essi furono portati in Francia ma non fu possibile addomesticarli tanto erano feroci ed inavvicinabili e finirono i loro giorni in mezzo ai cavalli selvaggi che il visconte allevava in Provenza.
Anche Màgnin descrive il molosso tibetano con una taglia dai 70 ai 90 cm e un peso sempre superiore ai 75 kg (misure e pesi questi senz’altro pià credibili di quelli riferiti dal Dàchambre, anche se di gran lunga superiori a quelli dei Mastini del Tibet attuali).
La preistoria
L‘origine di questi cani tibetani va ricercata nel mitico “Canis molossus”, derivato a sua volta direttamente dal gruppo etnico del “Canis familiaris inostranzewi”, vissuto da 6.500 a 6.000 anni prima di Cristo.
A questo proposito va rilevato che molte teorie sono state formulate su chi sia il pià probabile antenato del cane domestico e su come puà aver avuto inizio il suo processo di domesticazione e di adattamento all’uomo ed alle sue esigenze. Anche i pià recenti studi situano in circa 15.000 anni fa nell’epoca intermedia fra l’era paleolitica e quella neolitica, la prima comparsa del cane nella società umana. Quel lontano antenato, già parzialmente addomesticato, discende probabilmente dal «Tomarctus», il predatore dalle zampe corte (antenato del lupo e dello sciacallo), vissuto da 15 a 10 milioni di anni fa. Il Tomarctus derivava a sua volta dal
«Cynodesmus» (apparso sul continente americano circa 20 milioni di anni fa) che rappresentava una tappa evolutiva del «Cynodictis europeo», (vissuto circa 30 milioni di anni fa), antenato de canidi e degli orsi. Andando ancor pià a ritroso nel tempo troviamo infine il «Miacis» (vissuto circa 4( milioni di anni fa), capostipite di tutti i mammiferi carnivori. Circa 200.000 anni a.C. comparve in America e nella Mitteleuropa il “Canis lupus”, (il lupo), in Cina il “Canis sinensis”, poi il coyote in America, ancora la volpe e lo sciacallo in Europa.
Vi à poi un’epoca intermedia (detta «della grande caccia») che va dai 30.000 ai 15.000 anni prima di Cristo in cui le suddette specie, a cominciare dal Canis lupus, si diffusero in tutta l’Europa e in parte dell’Asia. Nello stesso periodo non v’à traccia di canidi nel continente africano. La comparsa del cane domestico o «Canis familiaris», come lo chiama Linneo, à databile dai 15.000 ai 10.000 anni prima di Cristo e, pià precisamente, nel periodo neolitico anteriore sul finire dell’epoca magdaleniana. Al primo “cane” conosciuto, il C f. Putjani, si aggiunse presto (siamo fra 10.000 e 6.000 anni prima di Cristo), il C.f. palustris, denominato anche dal Ruetimeyer “Cane delle Torbiere” (o della torba), antenato degli spitz e di molte altre razze canine.
L’Età del Bronzo, che nel bacino del Mediterraneo va all’incirca dal 3.000 al 2.000 a.C., segna un’ulteriore evoluzione del Canis familiaris verso tipologie sempre pià definite e fra loro differenziate. In questo periodo, come abbiamo visto, fanno la loro comparsa: il già citato «Canis familiaris inostranzewi» (antenato di tutti i molossi, sia quelli di tipo pià pesante che quelli pià leggeri); il «Canis familiaris matris optimae», antenato dei cani da pastore (il C.f. matris optimae accompagnerà i popoli asiatici, fabbri e fonditori, che introdussero in Europa gli oggetti, gli utensili e le armi di metallo); il ««Canis familiaris leineri», antenato di tutti i levrieri e di molte razze da caccia ed infine il «Canis familiaris intermedius», antenato di spaniels, bracchi, griffoni, ecc., la cui comparsa coincide con la fine del periodo preistorico.
Secondo Jeitteles i cani del vecchio continente avrebbero per progenitori, oltre allo sciacallo («Canis aureus»), anche il Lupo indiano («C. pallipes»), il Lupo d’Egitto («C. Iupaster») e il Lupo del Tibet («C. Iupus laniger»). Proprio il grosso lupo degli altipiani himalayani potrebbe essere, secondo un’ulteriore ipotesi formulata dal Keller, il principale antenato selvatico dei molossoidi moderni.
La storia antica
I Fenici, popolo di grandi navigatori, contribuirono in modo determinante alla diffusione in tutto il bacino del Mediterraneo, accanto a molte altre razze, anche dei mastini delle due varietà e grazie ai fiorenti rapporti commerciali che avevano allacciato con i popoli abitatori delle isole britanniche, fecero conoscere ed apprezzare anche in quei territori i grandi molossi, successivi progenitori del moderno mastino inglese (Mastiff).
È storicamente noto che Serse, re della Persia, attorno al 470 a.C. introdusse in Grecia i molossi assiri. Questi ultimi, in seguito, sarebbero stati portati nell’area mediterranea da Pirro, re dell’Epiro, durante una delle sue numerose guerre d’espansione. Già a quei tempi i mastini erano noti col nome generico di «molossi» (dalla regione greca Molossia). Non à da escludere che lo stesso Alessandro Magno, con le sue guerre di conquista nei pià lontani territori asiatici, abbia contribuito alla loro diffusione. È cosa certa che già all’epoca del Macedone i mastini, soprattutto pesanti, fossero altamente considerati.
I fantasiosi cronisti dell’epoca raccontano che il Macedone ricevette in dono dal re indiano Poros un gigantesco molosso (probabilmente un tibetano pesante) e, impressionato dal suo aspetto, volle opporlo senza indugi a cinghiali e orsi. L’animale perà, abituato a ben altre contese, non dimostrà per questi avversari alcun interesse e rimase pigramente coricato a guardarli. Alessandro, deluso, lo fece uccidere. Quando apprese la notizia, il re indiano invià un secondo molosso gigante, di nome Peritas, e avvertí che, come il precedente, era abituato a combattere soltanto avversari degni di lui, quali leoni o elefanti; precisà altresì che al mondo non vi erano altri molossi pari alla bestia in questione e che se Alessandro avesse fatto sopprimere anche l’ultimo non ne avrebbe pià potuto avere di uguali. Alessandro fece allora combattere Peritas contro un leone e successivamente contro un elefante. In ambedue gli scontri l’animale si comportà con eccezionale valore, tanto che il Macedone, alla morte del cane, diede il suo nome ad una città. Curtius, uno dei biografi di Alessandro Magno, narra che un altro re indiano, Sophites, volendo persuadere Alessandro della forza e della ferocia dei suoi molossi, fece condurre un leone di grossa taglia e lo fece assalire da quattro di essi che immediatamente se ne impadronirono. Un arciere, per separarne uno dal leone al quale si era tenacemente avvinghiato, lo prese per una gamba e gliela recise; ma poichà il forsennato non si decideva a lasciare la presa, gliene taglià una seconda e così di seguito, fino a privarlo di tutte e quattro le membra. Ma cià nonostante e benchà mezzo morto l’indistruttibile mastino non rinuncià alla sua vittima.
Le cronache del tempo riportano inoltre che nel 326 a.C. 156 molossi, che Alessandro nel frattempo si era messo ad utilizzare regolarmente contro leoni ed elefanti, furono opposti nelle arene a belve e gladiatori. Proprio Aristotele era solito chiamare i grandi mastini «leontonix», cioà «discendenti dei leoni», tale era l’impressione che su di lui avevano provocato.
È altresì noto che il re della Lydia, Alyates, possedeva un vero esercito di molossi, al punto da dover impartire istruzioni agli intendenti del regnoper requisire il bestiame destinato a nutrire questi canisoldati. Nella stessa epoca (attorno al 350 a.C.) i Lydiani subirono alla battaglia di Thymbrà una terribile disfatta, dovuta in gran parte ai molossi di Ciro.
Gli indiani dell’Indostan, di ceppo ariano, popoli sognatori ed impulsivi, furono nei tempi antichi famosi per i loro cani. I quali furono descritti come animali gagliardi, forzuti, intrepidi e, come dicono le cronache dell’epoca, «di feroce stirpe molossiana».
LA STORIA MEDIEVALE E L’OSPIZIO DEL GRAN SAN BERNARDO
Nel Medioevo i molossi furono adottati da famiglie feudali e da ordini religiosi per custodire castelli e monasteri anche nelle valli.
A causa del quasi assoluto isolamento dei territori alpini non ci si deve meravigliare che questi cani si siano conservati tipologicamente e geneticamente intatti per parecchi secoli, giungendo fino a noi prima come «Mastini delle Alpi» o «Mastini Alpini» (così li chiamava San Girolamo in una sua personale descrizione) e poi come «Cani di San Bernardo» (nome che venne loro attribuito nel XIX secolo).
L’Ospizio del Gran San Bernardo fu fondato dal nobile Bernardo da Mentone (il futuro santo) verso il 1049 con il proclamato intento di aiutare, assistere e dar rifugio ai viandanti delle montagne che allora venivano valicate soltanto a piedi. Il Barone di Mentone, padre di Bernardo, aiutò più di una volta economicamente il figlio per migliorare e ingrandire gli edifici che costituivano l’Ospizio, alcuni dei quali giunti fino a noi. Con il proseguire del tempo il Gran San Bernardo divenne un punto di riferimento non solo per i viaggiatori «onesti», ma altresì per i briganti che perà, dopo un periodo di scorribande continue anche all’Ospizio, scemarono notevolmente di numero fino a scomparire quasi del tutto. È quindi presumibile che i primi mastini pesanti dell’Ospizio fossero utilizzati per «ripulire» la montagna da banditi ed animali feroci e che solo in epoca successiva siano stati impiegati per il salvataggio. Leggenda vuole che il capostipite dei grandi mastini dell’Ospizio fosse un gigantesco «dogue» usato per la guardia in una proprietà del Barone di Mentone in Savoia, ai piedi delle Alpi.
Non è dunque un caso che il primo ritratto «medioevale» del molosso pesante, cioè del moderno San Bernardo, risalga a circa la metà del XIV secolo e sia dipinto su un cimiero da elmo della casata svizzera «Heiligberg». Nel Museo Nazionale di Berna sono visibili documentazioni d’allevamento (con accurata tenuta di alberi genealogici) di mastini posseduti da case signorili dell’Oberland Bernese, del Vallese e di altri cantoni svizzeri. Era infatti
un’ambizione dell’aristocrazia svizzera conservare in purezza i grandi molossi e non è azzardato ritenere che gli attuali San Bernardo riallaccino le loro linee di sangue a quegli antichi progenitori.
In molti stemmi medioevali e ornamenti di elmi appartenenti a case nobiliari elvetiche e delle zone alpine italiane si trovano riprodotte teste che ricordano il cane di San Bernardo, dimostrando come il suo allevamento fosse diffuso da molto tempo. In età pià recente famiglie nobili del Bernese, del Friburghese, del Vallese e del Waadtland ascrivevano a onore l’allevamento di cani di questa razza: casate come i Rougemont, i Pourtalès, i Graffenriede, con l’istituzione di libri genealogici, crearono vere e proprie linee di sangue che, fino alla metà dell’Ottocento, portavano addirittura il loro nome.
Quando i monaci del Gran San Bernardo decisero di utilizzare per la loro opera di soccorso degli ausiliari canini certamente sperimentarono molte razze ma, date le straordinarie doti di forza e di resistenza richieste per un lavoro quasi sempre ai limiti della sopravvivenza, alla fine la loro scelta, come afferma anche lo Tschudy, non poté che cadere sui grandi mastini «romani» presenti in tutto il territorio elvetico e nella Valle d’Aosta.
La taglia e la potenza (doti imprescindibili per la funzione di soccorso, come vedremo in seguito), furono mantenute con la consanguineità. La selezione plurisecolare operata dai monaci con lo scopo
di migliorare l’intelligenza e l’olfatto del grande mastino finì per modificarne anatomicamente il cranio che da quasi piatto divenne convesso (soprattutto anteriormente), caratteristica questa ancor oggi essenziale nella valutazione morfologica del Cane di San Bernardo. Non si deve escludere che i monaci abbiano sperimentato, selezionando i loro ausiliari canini, anche i Grandi Bovari (discendenti diretti dei molossi leggeri da guerra), ma la teoria sostenuta da alcuni secondo la quale il San Bernardo moderno deriverebbe in massima parte da questi «Cani dei contadini o da capanna» è del tutto discutibile e priva di fondamento storico e cinotecnico. Infatti i San Bernardo di epoca precedente le esposizioni, cioè allevati esclusivamente per il lavoro, erano dei tipici molossi pesanti, basti pensare ai cani raffigurati da Landseer nei suoi dipinti del 1820, alle statue del Settecento poste all’ingresso del Castello di Belp, presso Berna, o addirittura ai celebri quadri di Salvator Rosa del 1695 dove i cani raffigurati evidenziano già (e si pensi bene all’epoca) la tanto desiderata convergenza degli assi longitudinali superiori del cranio e del muso (imprescindibile caratteristica di tipo dei moderni San Bernardo).
È difficile dire con certezza in quale secolo i monaci abbiano cominciato ad usare i cani nell’attività di soccorso. Si puà tuttavia presumere che cià sia avvenuto due o trecento anni dopo la fondazione dell’Ospizio (1049). Prima di questa data non si hanno notizie certe sulla presenza dei cani in quelle zone, anche perché il tempio romano di Giove e i manufatti annessi erano stati completamente distrutti dai Saraceni nel 950 d.c.
Secondo il rev. Cuming Macdona, pioniere dei sambernardisti inglesi che nella seconda metà dell’800 ebbe una lunga relazione epistolare col bibliotecario dell’Ospizio, Etienne Metroz, i cani avrebbero fatto la loro comparsa sul passo poco dopo la fondazione del convento. Dello stesso parere è anche Hugh Dalziel, notostudioso di cinofilia e storico di molte razze canine.
Purtroppo, a causa di un incendio scoppiato all’Ospizio nel dicembre del 1555 quasi tutto l’archivio andà perduto e da quanto rimane non è possibile trarre alcuna informazione certa. È solo verso la metà del 1600 che si hanno inconfutabili notizie circa la presenza dei molossi all’Ospizio. Altri cinologi quali il Manning e, successivamente, anche il Prof. Heim, sostengono che i cani sarebbero stati utilizzati per il soccorso solo a partire da quella data.
I primi ritratti «moderni» del San Bernardo, come già detto, attribuiti a Salvator Rosa e datati 1695, sono visibili alla Casa Madre dei monaci a Martigny. Rappresentano due mastini pesanti molto tipici, cioè già valutabili positivamente secondo criteri zoognostici moderni.
Il 22 agosto 1774 il letterato e viaggiatore J. Bourrit scriveva dall’Ospizio: «Trovansi qui cani di una grossezza straordinaria, addestrati al soccorso dei viandanti, sia per indicar loro la strada, sia per condurli tra la nebbia e la neve». J.B. de Laborde e F.A. de Zurlauben, nel 1780, dicevano dei monaci dell’Ospizio: «Essi sono accompagnati da grossissimi cani ammaestrati che si danno alla ricerca dei viandanti, si lasciano afferrare da essi e li aiutano a trarsi dagli imbarazzi in cui si trova no, conducendoli poi in direzione dell’Ospizio».
L‘opera di soccorso dei cani di San Bernardo raggiunse il suo culmine nel ventennio 1790-1810 per la presenza, fra gli altri cani, del celeberrimo Barry (1800-1814),
le cui doti psichiche, come vedremo, sono tuttora esemplari per la razza. Barry nasceva nel maggio del 1800, proprio mentre Napoleone I superava il passo alla testa di oltre 40.000 soldati. Dal 15 al 21 maggio 1800 Napoleone Bonaparte attraversà il valico ancora coperto di neve con un esercito di 35.000 uomini, 3.000 fa cavalli e muli e 40 pezzi di artiglieria, a cui s’erano aggiunti 6.000 montanari del Vallese incaricati di trainare i cannoni su tronchi d’albero. Per questo lavoro massacrante furono utilizzati anche i cani dell’Ospizio, che servirono altresì come scorta e guida per le truppe. Il capitano Colgnet, ufficiale dell’esercito napoleonico e autore di un libro di memorie su quella spedizione, ci ha lasciato una vivida descrizione sia dell’aspetto imponente dei cani che del loro particolare lavoro. Secondo Colgnet, Napoleone in persona s’interessà molto dell’opera benemerita svolta dai monaci e dai cani, durante l’incontro che ebbe con il priore dell’Ospizio di quel tempo, il canonico Louis Antoine Luger. Sembra addirittura che uno dei generali di Napoleone, Desaix, fosse salvato da alcuni cani mentre, alla testa di un piccolo drappello, si trovava sull’orlo di un baratro in cima al Monte Telliers (nella cappella del Convento esiste ancora oggi una lapide che ricorda l’episodio). Dopo questo fatto Napoleone comprese l’enorme significato che poteva avere un’istituzione come quella dei cenobiti del Gran San Bernardo. Fece così costruire altri due ospizi, uno al passo del Sempione (tuttora esistente) e uno sul Moncenisio, del cui funzionamento furono incaricati gli stessi monaci del Gran San Bernardo coi loro giganteschi cani.
Il nome «Barry» deriva dal dialetto bernese «Bari», diminutivo di «Bar» (orso). Tale nome, a quel tempo, era sinonimo di cane di San Bernardo, tanto è vero che in Svizzera, dal 1810 al 1860, i cani di questa razza erano chiamati «Barryhund» o «Chien Barry».
L’INIZIALE DIFFUSIONE DELLA RAZZA
Nel 1815 una coppia di San Bernardo dell’Ospizio fu importata in Inghilterra dalla Contessa Boode. Il maschio, che si chiamava «Lion», aveva un’altezza al garrese attorno agli 80 cm e una testa già tipica con muso quadrato, labbra ben sviluppate e stop evidente. Lo stesso «Lion» e suo figlio «Caesar» furono raffigurati nei già citati quadri del 1820 di Sir Edwin Landseer. Successivamente alcuni allevatori inglesi, probabilmente allo scopo di rinsanguare e potenziare il loro cane nazionale e cioè il Mastiff, acquistarono a pià riprese cani dell’Ospizio. Dal 1830 in poi l’interesse per il San Bernardo in Inghilterra comincià gradualmente ad aumentare tanto che la stessa regina Vittoria ne possedette una coppia. Anche gli archivi dell’Ospizio riportano testimonianze epistolari sull’iniziale diffusione della razza.
«1800 – Dal Quartier generale di Torino, il 9 messidoro, anno VIII della R.F. una e indivisibile Alessandro Berthier, generale in capo dell’Armata di riserva – al Priore dell’Abbazia di San Bernardo. Mi avete promesso, signor Priore, di donarmi un cane della razza di quelli del San Bernardo. Vi prego di consegnarlo, se possibile, al mio aiutante di campo Laborde, latore di questa lettera. Vi saluto. A1. Berthier».
Il 15 luglio 1822 Leopoldo, Granduca di Toscana, ringrazia M. le Prévost dell’invio di un cane.
Nel 1831 Aglaè Corday (Dix mois en Suisse – Le Grand St. Bernarrd) scriveva a sua volta di aver visto «mute» di cani all’Ospizio. «A mia richiestahanno chiamato a gran voce Turc, Drapeaux, Jupiter, Courage e Turca, cinque giovani ed enormi molossi che circondarono allegramente la tavola. Courage, specialmente, ha una fisionomia molto grave e uno sguardo severo, che non smentisce affatto il suo nome. Mi fu anche presentato un parente prossimo del famoso Barry, che avevo visto impagliato al museo di Berna».
Nel 1817 i monaci, per ridurre gli effetti negativi della consanguineità, utilizzarono prima di tutto i mastini pesanti che ancora erano presenti nelle valli e poi, allo scopo di migliorare con un mantello più ricco la resistenza dei cani, introdussero il Terranova e il cane da montagna dei Pirenei.
All’atto pratico, perà, il manto assai pesante e lanoso che essi ottennero con questo incrocio si rivelà controproducente perché, nell’ambiente polare del Gran San Bernardo, la neve gelata, addensandosi sul pelo, appesantiva l’animale. Da allora i monaci conservarono solo i soggetti a pelo corto, cedendo ad allevatori delle valli quelli a pelo lungo che ogni tanto comparivano nelle cucciolate. Nacque cosí la varietà a pelo lungo che, allevata nelle valli svizzere e poi in tutto il mondo, tanto successo ha avuto in passato ed ha tuttora. Oggi possiamo dire che almeno il 70% dei San Bernardo esistenti sono a pelo lungo.
Schumacher, il pioniere
Verso la metà dell’ ‘800 comincià la sua attività quello che puà essere considerato, a parte i monaci dell’Ospizio, come il primo allevatore «specialista di San Bernardo», lo svizzero Heinrich Schumacher (1831-1903), nativo di Holligen vicino a Berna. Egli fu attivo dal 1855 al 1890. In questo periodo poté selezionare moltissimo la razza, avendo come punto di partenza «ideale» quello che lui considerava il prototipo dei San Bernardo e cioè Barry I.
Un maschio assai simile al vecchio Barry fu donato da Schumacher all’Ospizio e contribuì alquanto a migliorare il livello qualitativo dei cani allevati dai monaci in quel periodo.
Di certo Schumacher, per non eccedere con la consanguineità, introdusse nella sua selezione anche diversi Grandi Bovari (eredi dei molossi leggeri da battaglia) che erano diffusi nelle stesse valli dove egli reperiva i “suoi” San Bernardo. Il risultato, peraltro poco incoraggiante, si vide in alcuni cani di quel periodo (fra cui il ben noto Barry III del Gran San Bernardo), che, eccessivamente alleggeriti, erano del tutto simili ai Grandi Bovari Svizzeri. Un esperto dei cani da capanna svizzeri, il Dr. Bernard Kobler, in un articolo pubblicato sul giornale di Escholzmatt in Svizzera nel 1924, afferma che Schumacher, a partire dal 1853, possedette una coppia di Grandi Bovari, che utilizzà in allevamento coi San Bernardo per qualche anno. Visti i cattivi risultati ottenuti li rivendette poco dopo.
Fra il 1860 e il 1870 Schumacher esportà parecchi cani in Russia e in Inghilterra ed in altri paesi stranieri, facendo così conoscere ed apprezzare la razza laddove era praticamente sconosciuta. Egli fu anche il primo allevatore di San Bernardo ad ottenere i pedigrees dal Libro Origini svizzero.
Quando si ritirà, nel 1890, lascià in eredità i suoi cani agli allevatori Seller di Zermatt e Muller di Briga, i quali continuarono la sua opera con buoni risultati.
Le prime esposizioni in cui fecero la loro comparsa i San Bernardo furono quelle inglesi di Birmingham del 1862 e di Cremorne del 1863.
Il maestoso aspetto del «Gigante delle Alpi», unito alla sua fama di cane da soccorso, ebbe sul pubblico un effetto dirompente e contribuì allo sviluppo dell’allevamento in tutta Europa.
Con la compilazione dello Standard della razza, approvato ufficialmente il 2 giugno 1887 al Congresso Cinologico di Zurigo, iniziava di fatto la storia del San Bernardo come cane da esposizione.